Plurilinguismo e infanzia Gianni Loy

Gianni Loy

Plurilinguismo e infanzia

Un percorso umano ed educativo tuttora in atto fondato sulla necessità di garantire alle future generazioni la trasmissione del proprio patrimonio culturale attraverso l’uso della lingua madre. Gianni Loy racconta la felice esperienza portata avanti coi suoi figli, oggi perfettamente trilingue. Il sardo come lingua madre, assieme allo spagnolo e l’italiano, attraverso un percorso “naturale”, lontano dalle metodologie tipiche dell’apprendimento scolastico.

Nella letteratura scientifica si sostiene da tempo che l’educazione bilingue è una opportunità per i bambini. Ricerche condotte in diverse università nel mondo dimostrano che i bambini che crescono bilingui hanno molte più opportunità e vantaggi anche in materie come la matematica.

La Sardegna, una piccola isola di 25.000 Kmq, con 1,5 mln di abitanti, potrebbe essere un contesto ideale per il bilinguismo, ma la lingua madre, il sardo, è stata abbandonata. I motivi sono diversi: uno d’imposizione linguistica, perché era proibito parlare in sardo a scuola e nelle istituzioni; l’altro per una sorta di auto – censura spontanea. I genitori pensavano che l’italiano avrebbe permesso ai propri figli di inserirsi più facilmente nella società. Ormai questa censura è sparita, ma oggi la Sardegna è divisa in due parti, una dove nei paesi i bambini crescono parlando il sardo; l’altra, dove la lingua è praticamente sparita, come nella capitale. Se si sente un bambino parlare in sardo fa uno strano effetto. Cagliari è dunque un ambiente ostile perché un bambino impari il sardo crescendo. La nostra storia parte da qui anche se mio figlio è cresciuto con tre lingue, perché la madre è spagnola.

Per seguire questa esperienza è necessario comprendere un paio di cose, soprattutto per chi volesse ripeterla: la prima è la motivazione. Nella decisione di crescere mio figlio bilingue l’ideologia non ha avuto nessun peso: non c’è alcun rimando all’indipententismo. La cosa è stata naturale, perché se la lingua si trasmette da secoli da padre in figlio, non si capisce perché noi dovremmo interrompere la trasmissione delle nostre abilità. Anche la lingua, come un gioco, è una abilità, per cui pensiamo che questo sia un dovere, essendo la lingua una chiave per interpretare e capire il mondo. La motivazione è solo questa anche se, da parte mia, non ho voluto ripetere la mia esperienza personale di figlio a cui genitori sardi si rivolgevano solo in italiano. Di fatto sono stato privato di una conoscenza che essi possedevano maggiore di quella che oggi possiedo, limitata rispetto alla loro. La motivazione dunque risiede nel dovere sociale nei confronti delle nuove generazioni,che hanno il diritto di conoscere e trasmettere il nostro patrimonio culturale. Senza la conoscenza della lingua madre ciò non può avvenire. Tanti giovani che non sanno la lingua, non possono partecipare a questa trasmissione quando qualcuno parla o scrive in sardo. Rispetto alla tecnica, nel nostro caso noi non abbiamo insegnato il sardo al bambino: gli abbiamo semplicemente parlato in sardo, che è una cosa molto diversa. Il bambino non sa di parlare due lingue differenti, ma si rivolge al genitore nella lingua parlata da questi, nel suo codice. Un elemento tecnico importante è quello di non confondere gli idiomi: è fondamentale dunque che ogni genitore usi una sola lingua con il figlio, senza mischiare: mio figlio ha sette anni, e non gli ho mai parlato in italiano, e neanche lui l’ha mai fatto con me. Se poi non sa una parola in sardo, mi chiede di poterla dire in italiano. In ambito tecnico, un’altra cosa importante è che non ho mai corretto mio figlio quando parla in sardo, perché non creda che sia un obbligo, ma una cosa naturale. Poi dai 5 o 6 anni ho cominciato a fargli notare le differenze fra gli idiomi, per esempio fra sardo e spagnolo, rispetto alla posizione dell’aggettivo. Sempre riguardo alla tecnica, quando siamo a casa, né io né mia moglie parliamo l’italiano col bambino per non confonderlo con una terza lingua, avendo sempre ascoltato la madre parlare solo spagnolo, il padre solo sardo. Dunque, la tecnica si riassume nel parlare la lingua naturalmente, e lasciare che le cose seguano di conseguenza

Un aneddoto curioso: un giorno mia moglie è stata rimproverata da un’altra mamma per la nostra scelta di parlare con nostro figlio in sardo.Tuttavia, mentre mio figlio, ad un anno e mezzo, incominciava ad esprimersi in  tre lingue, sua figlia ancora non parlava. Tanto è il peso dell’ideologia! La tecnica è una cosa importante, ma non decisiva: si tratta di capire bene che la trasmissione culturale non è la stesa cosa dell’apprendimento scolastico. Sono importanti le esperienze fatte: abbiamo trasmesso il sardo in un contesto urbano, dove un  bambino che parla in sardo crea stupore. Non è normale, non è naturale. Mi sono però accorto di un’altra cosa, poco dopo iniziata questa esperienza, che voglio dire chiaramente: se sento dei genitori sardi parlare in italiano a loro figlio, lo trovo innaturale, sgradevole, perché non ci sono abituato. Mi colpisce ancora di più se fra loro poi parlano in sardo, come se il bambino non fosse in grado di capire la lingua madre o non gliela volessero insegnare. All’inizio può sembrare difficile fare quanto detto, ma mi sono bastate un paio di settimane perché fosse del tutto naturale parlare in sardo a mio figlio essendo la mia lingua materna.

L’esperienza mi ha fatto capire il processo di apprendimento nei bambini: curioso il momento in cui mio figlio ha scoperto che la lingua sarda ha come dominante la u finale. Quando non sapeva una parola, la inventava inserendo una u finale a parole italiane o spagnole. Direte che è normale, ma ho capito che nell’apprendimento, quando è chiara una nuova chiave interpretativa della lingua, la si utilizza. Curioso è che il bambino che apprende la lingua in questo modo, non da importanza alla lingua, ma alla persona con la quale parla. Per esempio, all’inizio, quando era in Spagna, il bambino con i familiari parlava spagnolo, ma quando un estraneo si rivolgeva a lui in spagnolo, il bambino rispondeva sempre in italiano. Così, se uno dei miei amici si rivolgeva a lui in sardo, il bambino rispondeva sempre in italiano. L’associazione la faceva con la persona e non con la lingua. Certo adesso risponde con il registro che volete, ma addirittura, il bambino faceva la traduzione fra me e la mamma, perché pensava che non ci capissimo, dal momento che utilizzavamo con lui due lingue diverse. E lo stesso faceva con i miei amici.

Un aspetto importante è l’attenzione della gente al riguardo. La mia esperienza ha registrato col tempo una accettazione sempre maggiore fra la gente, e adesso sembra una cosa positiva. Anche nei paesi, dove potrebbero fare tranquillamente lo stesso. Vuol dire che si sta diffondendo un meccanismo di trasmissione. Anche in un ambiente ostile, insisto, questo è come un virus che viene partecipato dalle persone che ci circondano. Si creano delle relazioni per cui, per esempio, adesso la direttrice della scuola di mio figlio parla con lui solo in lingua sarda, avendoci preso gusto.

Ho parlato dei vantaggi del bilinguismo secondo la letteratura scientifica, ma questi valgono per tutte le lingue, non solo per il sardo. Io non ho pensato a questi vantaggi, non mi interessava, ma a fare quello che mi sembrava fosse il mio dovere, cioè credo che la cultura sia parte della natura, quindi non dobbiamo distruggerla, ma dobbiamo consegnare ai figli come l’abbiamo trovata, e loro decideranno cosa farne. Il nostro dovere è quello di garantire la trasmissione: un patrimonio di conoscenze da difendere e salvare di cui in futuro ne usufruiranno i nostri figli.

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